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Dalle inezie ai giganti.

15 ottobre 2021

Tiny House
Oakland, CA
Ore 20:17

Cari amici,

Che stranezza, oggi, tornare a casa dopo lavoro e non essere di corsa, in ritardo o con mille cose da fare. Sono entrata, ho buttato lo zaino vicino al divano e ho pensato “e ora che faccio?”. E mi siete venuti in mente voi.

Spesso penso che, alla fine, non è che ci sia così tanto da dire, le settimane scorrono velocissime tra le due scuole, le noiose incombenze casalinghe e qualche sprazzo di vita sociale. Invece ci sono momenti, come questo, in cui scriverei anche delle cose più piccole. Oggi, per esempio, ero in Bart con una collega, anzi con La Collega con la L e la C maiuscole (maiuscole per infiniti motivi che spero di riuscire a raccontarvi prima o poi) e persa nelle nostre chiacchiere ho rischiato di perdere la fermata, sono scesa in fretta e furia, tirandomi dietro la bicicletta e arrancando per le scale che dai binari portano al piano strada. Mi fermo appena fuori dalla stazione per liberarmi della mascherina, mettere casco e cuffiette e far partire la puntata di un podcast lasciata a metà stamattina. Nel mentre mi casca la bici, la tasca superiore dello zaino si apre tipo le fauci del lupo de La Spada nella roccia e tutto quello che c’era dentro si rovescia per terra, TUTTO, mi si annodano i capelli alla mascherina, insomma: c’era del disagio. Quando finalmente riesco a fare tutto e spingo play sul telefono mi si avvicina un tale con una valigia e una faccia alquanto dubbiosa e mi chiede qualcosa. Qualcosa che io ovviamente non capisco perché ho le cuffie, per cui cerca il telefono, metti pausa, togli il casco, togli la cuffia, scusati e chiedi di ripetere la domanda: “is this the Bart Station?”. “Sì, è questa.” Rimetto cuffie, casco, premo play, alzo lo sguardo e mi accorgo che il tale sta parlando di nuovo, guardando me. Aricomincia la svestizione, arichiedi scusa e aririchiedi di ripetere la domanda: “Come faccio ad arrivare all’aeroporto”.
Segue breve spiegazione su come fare e un lunghissimo sospiro finale (faccio presente che la stazione in questione ha due binari e una banchina, ci sono cartelli luminosi ogni 2 metri che indicano la destinazione del treno in arrivo e una delle due è SFO AIRPORT).

Ma perché vi ho scritto tutta questa storia? Perché alla fine del sospiro mi sono fatta molto ridere da sola. Mi sono ricordata di quando vivevo a Roma e prendevo i mezzi per andare a lezione o a lavoro, con livelli di stress disumani e sospiri a non finire. Qualsiasi interruzione della routine che avevo pazientemente coltivato e creato era mal accetta. A maggior ragione perché Roma è un po’ una giungla e i locali ci si districano abbastanza agilmente, e qui io non mi ero mai sentita così: snervata, incasinata, felicemente assorta nel mio tran tran al punto da sbuffacchiare un po’ se un pover’uomo mi chiede indicazioni per l’aeroporto.

E quindi? Boh, però mi sono fatta ridere e spero di fare ridere anche voi!

Passiamo alle cose serie. Un’altra conseguenza di questo essermi un po’ tanto acclimatata a questi nuovi luoghi, a questa nuova quotidianità, è che poi alla fine da quando ho iniziato a lavorare ho perso cognizione del fatto che esista una roba chiamata “fine settimana”! Cioè sì, ok, esistono due giorni in cui non mi alzo all’alba e non vedo pargoli urlanti, ma era completamente sparita quella verve da “Ehi dai è sabato, esploriamo il mondo!”, così come era sparito l’uguale nell’equazione DOMENICA = GITA.

E quindi, lo scorso fine settimana, con audacia e spavalderia abbiamo prenotato un tour di 4 ore di whale watching per la mattinata di domenica.
Così, de botto, senza senso (chi la capisce ha tutto il mio amore e rispetto).
È stata una giornata stravolgente, bellissima, inaspettatamente super!

Il tempo era perfetto, sole e pochissimo vento, oceano “calmo e piatto” (lo metto tra virgolette perché io sono abituata al piattume del Tirreno) e neanche un po’ di nebbia, combinazione più unica che rara dalle nostre parti.
Abbiamo visto una quantità di animali infinita, uccelli di ogni genere, pellicani gigaenormi, una sfilza di leoni marini, le lontre che si coccolavano la pancia, un pesce sole (allego foto) che abbiamo scoperto chiamarsi così un po’ per la forma tondeggiante e un po’ perché sale in superficie messo di lato, con l’occhio rivolto verso il cielo, perché ha freddo assai e quindi deve mettere quanta più superficie possibile esposta al sole per potersi scaldare, un banco di delfini che ci sono schizzati accanto tipo Speedy Gonzales e poi, ovviamente, le balene.

Eravamo in barca da pochissimo, forse a circa un chilometro dalla costa e il biologo marino a bordo ci dice che alla nostra sinistra stanno nuotando una mamma con il suo cucciolo, lei si chiama Starlight e lui Google (per via della pigmentazione “googli” attorno agli occhi). Prima vediamo gli spruzzi, poi i dorsi e mi ricordo di aver fatto una fatica bestiale a rendermi conto che io ero proprio nel loro stesso mare, che non erano dentro una tv in un documentario sugli oceani, ma che erano due balene, vere, lì in carne ed ossa, che stavano facendosi beatamente gli affari loro e che io anche ero lì a guardarle.
Seguiamo la mamma e il cucciolo a lungo, ci godiamo tantissime “scodate” e riusciamo anche a fotografarne qualcuna. Più tardi ci imbattiamo in diversi altri gruppi di 2 o 3 balene, anzi per la precisione di megattere.
Quello che mi lascia senza fiato è la potenza di questo incontro, la forza catalizzatrice di questi giganti marini che, seppur non facendo niente per farsi guardare (voglio dire, stavano nuotando e mangiando, cose ordinarie, no?), attraggono gli sguardi e il respiro di noi umani al punto da non poter più fare altro se non continuare a guardarli vivere. E mi accorgo di questo perché non appena compare una balena tutto cessa: i motori delle navi si spegnono, il chiacchiericcio sulla barca s’interrompe e cala un silenzio impossibile anche solo da immaginare in mezzo all’oceano.

Nonostante io soffra terribilmente di mal di tutto, auto, bici, treno, metro, nave & co, e nonostante quel giorno il mio mal di tutto non mi abbia risparmiata affatto, quelle quattro ore sono state incredibili, una pausa e una ricarica indispensabili.

E poi è ripartita la settimana e tutto il suo turbinio, culminato oggi con la notizia della riapertura dei confini. Si può tornare a viaggiare verso l’America e, per chi come me era un po’ bloccato qui, anche verso l’Italia.

E anche se è ancora troppo presto e troppo complicato per fare piani di rientro, è stato bello sapere che non c’è più un muro a dividermi da casa.

È iniziato ufficialmente un altro weekend, questo probabilmente più “ordinario” del precedente, ma non meno interessante. Ci sentiamo presto, vero?

Vi abbraccio,

Bi

2 risposte su “Dalle inezie ai giganti.”

Per quanto ci educhino fin da bambini all’esistenza delle balene, continuiamo a credere che siano animali leggendari, possibili solo nelle fiabe. Per questo, forse, la tua mente faceva fatica a sintonizzarsi lì, in quel momento, e il tuo cuore provava una gioia indescrivibile. È come incontrare un ippogrifo o un drago. Personalmente spero di riuscire vederli tutti e tre e lo auguro anche a te. Tvb

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